(Nigrizia gennaio 2020 - qui il pdf)
Patrie d'Etiopia
Alla radice dei conflitti militari e civili in una nazione di ottanta etnie c'è la lotta secolare tra autorità centrale e autodeterminazione dei popoli
Testo e foto di Fabio Artoni
Due di marzo, anniversario della vittoria dell'Imperatore Menelik sugli italiani ad Adwa nel 1896. Sotto la statua equestre dell'Imperatore ad Addis Abeba - a Piassa, nella città storica - due ragazzi mostrano le immagini di Menelik, simbolo dell'Etiopia unico paese africano mai colonizzato. Ma anche una data che dovrebbe unire una nazione, in realtà la divide, perché in questi anni di spinte nazionaliste l'Imperatore è associato all'egemonia di una etnia (quella amhara) su tutte le altre
Nel maggio del 2020 in Etiopia ci saranno le elezioni nazionali. Un evento di cui si teme il prima e il dopo. Tante domande: Ci arriveremo in pace? Le regole saranno rispettate? I perdenti accetteranno il risultato? Avere il record di sfollati interni per violenze etniche più alto al mondo, giustifica i timori. Ma c’è una domanda delle domande che tiene banco nel dibattito politco. Quella di sempre: Cosa è l’Etiopia?
Un amico mi fa leggere un bell’articolo su una etnia che si chiama Raya. La sintesi è che in una zona nel nord Etiopia, tra Tigray e Amhara, la gente parlava amarico, tigrino e oromo; e ormai tra di loro si erano sposati, fatto figli, seppellito parenti. In quella comunità non sapevano più cosa erano. E forse è per quello che decisero di chiamarsi Raya. Ora i Raya sono coinvolti in dispute etniche, contesi tra due stati federali, tra Raya tigrini e Raya amhara.
Poi c’è la questione dei Quemant. Vivono a nord del lago Tana, sono contadini, discendono dagli Agaw, antico popolo di questa zona. Anche se sono ormai quasi tutti convertiti al cristianesimo ortodosso, rientrano in quella ampia categoria, i beta israel, le cui radici sono (forse, le opinioni sono contrastanti) nel giudaismo. Fatto sta che il Censimento Nazionale non li considerò etnia. Ora vivono quello che uno studioso di questa comunità chiama “nativistic movement”, come reazione a una egemonia culturale subìta. Come effetto collaterale, ci sono scontri, anche armati, perché i Quemant vogliono essere riconosciuti come popolo.
Sono due esempi delle tensioni nell’Etiopia di oggi. Dove però ogni rivendicazione perde la sua innocenza, perché c’è il sospetto che vi siano “evil forces” all’opera, che lavorano per indebolire l’avversario. Tra le altre, fonti diverse raccontano, tra i miei dubbi da fact checker: i qemant sono sostenuti sottobanco dai tigrini per indebolire gli amhara; nel Raya gli amhara fomentano le divisioni per ridiscutere con i tigrini i confini; milizie etnonazionaliste amhara minacciano le zone dei Gumuz al confine con il Sudan; e non ultime, le varie fazioni dell’Oromo Liberation Front non ancora disarmate coinvolte negli scontri tra Gugi e Gedeo.
Il federalismo etnico
Per capire queste tensioni bisogna capire cosa è il “federalismo etnico”. Un esperimento tutto etiopico voluto per risolvere le questioni di egemonia culturale ed economica di un popolo su un altro – uniti nella diversità, lo slogan – e diventato per molti la causa dei conflitti di oggi. Lo stato federato su base etnica nacque da una assemblea costituente dal 1991 al 1995, un periodo in cui l’Europa vedeva la Yugoslavia andare in pezzi; e tra le perplessità di chi non capiva perché proprio in una nazione mai colonizzata, il germe della divisione diventasse istituzione.
Solo l’Oromo Liberation Front si oppose e fu bollato come terrorista. Alla fine il federalismo etnico andò in porto: perché sembrava non ci fosse altra soluzione e perché le etnie pensavano che il diritto alla secessione li avrebbe tutelati da un’etnia dominante, come erano stati gli amhara dell’Imperatore Menelik e Haile Selassie. Fu redatta una “mappa etnica” con oltre ottanta etnie e la nuova Costituzione parlava nel nome di “We nations, nationalities and peoples of Ethiopia”. Si lavorò (e si lavora) con il bisturi per abbinare confini geografici e confini linguistici; ma con cicatrici che periodicamente si riaprono. Autonomia, libertà di usare la propria lingua, diritto di secessione erano e sono gli elementi basilari.
A sinistra, una foto scattata a un giovane motociclista a Jinka, una cittadina nella Valle dell'Omo che fa parte degli Stati del Sud, un "contenitore" di etnie, ben quarantasei, che gli strateghi del federalismo etnico raggrupparono per farne uno dei grandi stati federati nella struttura della nuova Etiopia post Derg nella Costituzione del 1994. In realtà anche questo stato contenitore è suddiviso in aree geografiche omogenee costruite sulla base dell'appartenenza etnica, con la difficoltà a gestire cambiamenti di "etnia" nella popolazione e confini labili, spesso legati a ricchezze preziose per allevatori e agricoltori, come risorse idriche, pascoli, foreste.
A destra un oromo a cavallo. La foto è stata scattata a Dinsho, sui Monti Bale. Gli Oromo sono il gruppo etnico più numeroso in questa nazione di oltre cento milioni di abitanti e nonostante questo non hanno mai gestito il potere. Anzi, hanno spesso denunciato di essere stati sottomessi e sfruttati dalle etnie dominanti (amhara e tigrini, gli "habescia") a un punto tale che questa colonizzazione interna ha minato le basi linguistiche (l'oromiffa) e culturali (il gada system, un complesso sistema di rappresentaza del popolo oromo basato sui cicli generazionali)
Anni vissuti pericolosamente
Ma la storia ha infranto le promesse. Il partito dei tigrini, il Tplf, divenne egemone. Viene citato un detto a proposito: “a una gallina basta tenere una corda al collo abbastanza lunga perché si creda libera”. La corda lunga era l’autonomia: diritto che non fu messo in pratica come nei patti. Nella primavera del 2018 il regime è collassato: la strategia della corda lunga non funzionava più; i woyane tigrini erano diventati per tutti gli oppressori, i corrotti, gli affaristi; le rivolte in Oromia erano in marcia e non si sarebbero fermate. Il problema non era solo etnico, era anche di giustizia sociale: dove finivano le risorse e il benessere di questa nazione con crescita del pil a doppia cifra per un decennio?
La storia da aprile 2018 a oggi parte dalla nomina a premier di Abiy Amhed: Doctor Abiy per gli etiopi e subito in odore da nobel per la pace per la comunità internazionale. Si può dire in sintesi che lo spettro di uno stato disgregato e di caos rivoluzionario si è fermata davanti a una forte e convincente volontà riformatrice. Abiy Amhed, uomo del partito ma anche (in parte) oromo, è emblema degli oromo per la prima volta ai piani alti del potere in Etiopia. Ora che ha rivoltato il terreno del confronto politico zolla per zolla – in primis la libertà di espressione – Abiy ha bisogno della legittimazione popolare: le elezioni.
Il panorama
Nonostante la politica di esasperare le differenze etniche sia sul banco degli imputati della storia c’è un paradosso: proprio l’etnonazionalismo domina oggi la scena, soprattutto fuori dalle grandi città; e sembra il modo più efficace di costruire consenso.
Pan etiopianismo
Abiy Amhed fa parte di un gruppo di leader oromo riformisti chiamato Team Lemma, dal nome di Lemma Megersa, carismatico giovane capo oromo. Abiy ha mantenuto le promesse: liberazione dei prigionieri politici, ritorno in patria di leader e gruppi di opposizione come l’Oromo Liberation Front e il Ginbot 7; pace con l’Eritrea; trasparenza; denuncia della corruzione. Ad Addis Abeba la maglietta di Abiy e la scritta Feker Yashenefal (l’amore vincerà) fa concorrenza a Leo Messi. Ma la cronaca spinge le critiche: lo stato è diventato debole; le violenze etniche sono state tollerate; le campagne si sono organizzate in milizie; e il numero di sfollati batte record mondiali.
Ancora non si sa se Abiy riuscirà a rinfrescare la formula della coalizione di partiti regionali che si chiama Eprdf. O se darà una svolta facendo dell’Eprdf un partito unico nazionale, pan etiopico. Ma Abiy tesse una tela fatta di Istituzioni di garanzia che aiutino a gestire anche il dopo elezioni. Ed è l’unico che propone una visione per l’Etiopia: coniugare liberismo economico e progresso. D’accordo o meno, altri schieramenti non paiono avere le idee chiare.
Il competitore di Abiy nelle città potrebbe essere il partito del Professor Brahnu Nega. Branhu era il leader del gruppo fuorilegge “Arbegnoch Ginbot 7”: arbegnoch come patrioti, che evidenzia la dedizione a una causa nazionale; e ginbot 7, per ricordare il dopoelezioni del maggio del 2005, finite con oltre 200 morti e migliaia di prigionieri politici: il vero spartiacque tra un governo legittimo e un regime repressivo.
In Tigray
Tra le librerie di strada di Addis Abeba vedo la copertina di un libro con un vecchio militare tigrino in sedia a rotelle, volto dell’impotenza di un ex potere. I tigrini dicono che c’è una campagna di odio nei loro confronti, della quale il Premier non è senza colpe. E così si stringono attorno al partito, il Tplf, che sostiene il principio dell’autonomia delle etnie. Si legge però, qui e là, che qualcuno parla addirittura di secessione e di Grande Tigray fuori dall’Etiopia. Ipotesi, ma se il Tplf dovesse rompere l’alleanza con l’Eprdf darebbe una spallata alla coalizione. Perché questa regione tra gli altopiani montuosi del nord ha la storia dei discendenti dell’Impero di Axum. Ed è il luogo di nascita della chiesa ortodossa d’Etiopia, il collante identitario dei popoli egemoni degli altopiani; un potere, quello religioso, che è a sua volta sotto attacco concreto (le numerose chiese bruciate) e teologico (la minaccia di uno scisma).
Questa foto è stata scattata in un bar di Afdera, in Afar, e l'uomo sul poster è Meles Zenawi, leader tigrino protagonista della rivoluzione contro il Derg e dell'Etiopia federale, morto nel 2012. La foto è del gennaio 2018 e solo qualche mese dopo il governo a guida tigrina sarebbe caduto sotto le spinte dei giovani oromo e amhara, aprendo la strada a un riequilibrio etnico dei poteri con al comando il Premier Abiy Amhed.
In Oromia
In una libreria di Addis Abeba – Finfinne in oromo - trovo il libro “Being and becoming oromo”, che non si vedeva in giro da anni. Percorro la Rift Valley, immense distese di grano e poi la più alta strada d’Africa, il plateau a 4000 metri dei monti Bale, e rimango sempre in Oromia. Tutte le scritte sono in afaan oromo e viene voglia di studiarlo per salutare il contadino con lo scambio di baci sulle mani, chiedendogli come va (Akam) e aspettandosi il Pace (Naga) di ritorno. E pensare che fino al 1974, per volere di Haile Selassie, l’afaan oromo non doveva proprio esistere. Dal 1992 gli oromo la scelsero come loro lingua e di scriverla in caratteri latini.
Lungo le strade d’asfalto sono migliaia i ragazzi che cercano un lavoro a giornata. Da lì vengono i Queeroo, i giovani militanti oromo, laureati e spesso disoccupati. Con loro la consapevolezza è entrata nelle case contadine: “padre e madre, anche vi sembra molto quello che vi offriranno per la vostra terra, è poco o niente perché ci prendono il futuro”.
C’è un’ipoteca sul governo di Abiy in queste parole: “Al potere in Etiopia c’è Abiy Amhed e i Queeroo”. Sono parole di Jawar Mohammed, attivista dell’Oromo Media Network, che ha giocato un ruolo chiave nelle rivolte attraverso i social ma con i lati oscuri dei discorsi d’odio. Ma a Sof Omar, verso la Somalia etiopica, la maglietta popolare tra i bambini ha il viso di Jawar sopra la parola oromo “bilisumma”, libertà.
In Amhara
L’ampia zona d’Etiopia chiamata amhara va dal lago Tana a Lalibela, dalla riva nord del Nilo alle montagne dei Simien. È l’Etiopia dell’amarico, della chiesa ortodossa e degli imperatori salomonidi. Ma nelle intemperanze verbali non si distingue tra elite e classi, e gli amhara diventano i colonizzatori o i neftegna (esattori, in senso dispregiativo). Ma percorrendo campagne e montagne, di questa intellighentsia se ne vede poco nei volti dei contadini scalzi che rivoltano zolle di terra. Ma la febbre da etnocentrismo ha colpito anche questa zona, con un nuovo partito - Nama, National Movement of Amhara - aggressivo e in ascesa. E con gli altri partiti rincorrono il consenso su questo terreno.
Coloratissima vigilia di matrimonio ad Harar, città santa dell'Islam e vero e proprio ponte culturale tra mondo africano e mondo arabo.
Negli Stati del sud
I queeroo oromo hanno da qualche mese degli emulatori nella regione del Sidamo, a sud dei laghi della rift vallley, posto di foreste, caffè, terra rossa e frutta più dolce che in nessun’altro posto. Sono gli Ejeeto, giovane braccio manifestante di quattro milioni di Sidamo che chiedono l’autonomia, ossia il privilegio di nuovo Stato Regionale nella federazione. Ci sarà un referendum, che al di là degli esiti potrebbe aprire innumerevoli altre richieste (dai konso ai walayta) in uno stato contenitore che rappresenta quasi cinquanta etnie.
Passo del Senegal, tra le case della gente Ari, una etnia della valle dell'Omo.
In una libreria di Addis Abeba
C’è una bella luce nella libreria di Addis Abeba dove i giovani leggono, discutono, parlano di politica. Ora possono farlo. Si stampano libri e giornali che si vendono ovunque. Non è il tempo della disillusione dalla politica per questa città che appartiene a tutte le nationalities d’Etiopia. Un amico però si deprime leggendo di sfollati, di milizie e di etno-nazionalismo. E così mi dice: “L’Etiopia non è pronta per la democrazia. Non siamo come i paesi europei”. Non riesco a consolarlo e bevo il mio caffè, amaro; gli dico solo che in Europa c’è un partito che si chiama I Veri Finlandesi.
Confusione etnica
Gli studi dell'Institute for the Study of Ethiopian Nationalities alla base del federalismo etnico
Nel novembre del 1969 un giovane studente di Addis Abeba, Walelign Makonen, scrisse un articolo che diceva:
“Per essere un vero etiope bisogna parlare amarico, ascoltare musica amhara, accettare la religione cristiana ortodossa di tigrini e amhara… In pratica, per essere un etiope, devi indossare una maschera amhara”.
Walelign era marxista leninista. Morì nel 1972 tentando di dirottare un aereo. Quell’articolo ha fatto storia in Etiopia e dimostra il carattere ideologico su cui si basa il federalismo etnico: l’autodeterminazione dei popoli. Per tracciare una mappa etnica dell’Etiopia c’era bisogno di “etichettare” i popoli. Prima del Censimento Nazionale del 1994 si cercò di farlo ricorrendo a uno studio fatto da un apposito ente (l’Isen, l’Institute for the Study of Ethiopian Nationalities) con scientificità sovietica. Del lavoro dell’Isen, un libro di John Markakis riporta le difficoltà dell’impresa:
“Regnava confusione sui nomi delle nazionalità. Molti gruppi etnici chiamavano se stessi con un nome; i loro vicini li chiamavano con nomi diversi; lo Stato li conosceva ancora con un altro nome; mentre antropologi e linguisti avevano per loro nomi ancora diversi. Molti gruppi sono conosciuti con il nome dei clan, altri per la loro religione. Spesso, non è chiaro se un nome si riferisce a un gruppo etnico, all’area che abita, alla sua lingua o a qualcos’altro”.
Basandosi sulle lingue catalogate dall’Isen, il “Museo di Popoli” che è l’Etiopia ebbe etichette in abbondanza; rimarrebbe da capire quanto abbracciassero la realtà. Perché già nel 1974 Donald Levine scrisse uno straordinario saggio presagio, dove denuncia che è un peccato che gli antropologli si siano concentrati più su quello che differenzia i popoli che su quello che li accomuna.